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Nelle vesti di procuratore distrettuale, Penn Cage ha fatto condannare decine di assassini al braccio della morte. Credeva di aver visto...

Nelle vesti di procuratore distrettuale, Penn Cage ha fatto condannare decine di assassini al braccio della morte.

Credeva di aver visto il peggio, di aver fatto le scelte più difficili.

Mai si sarebbe immaginato di dover affrontare il rischio più grande una volta eletto sindaco della sua città.

Perché Natchez nel sud degli Stati Uniti ha tutta l'aria di un posto tranquillo: una cittadina ricca di storia ma un po' decadente, cui andrebbero restituiti lustro e prosperità, dove il problema più tenace sembrano essere le tensioni razziali latenti.

La Notte Non è un Posto Sicuro.

La storia parte da un racconto fatto al sindaco Cage da un suo vecchio amico d'infanzia ex-tossico.

Si parte dal gioco d'azzardo per arrivare a prostituzione e combattimenti con i cani.
Leggi anche:Greg Iles è cresciuto a Natchez, Mississippi, dove vive tuttora e dove ha ambientato molti dei suoi romanzi

Trama.

La verità è che Natchez nasconde il suo vero volto anche a Cage. Un volto che si svela nella notte, sui casinò galleggianti ormeggiati sulle rive del Mississippi, moltiplicatisi da quando la tentazione dei soldi facili ha fatto dilagare il gioco d'azzardo. Un volto più nero delle peggiori aspettative, se è vero che uno dei casinò, il Magnolia Queen, è in realtà un covo di prostituzione e di combattimenti clandestini tra cani.

La soffiata arriva a Cage da Tim Jessup, suo vecchio amico d'infanzia, che adesso lavora al Magnolia. Poco dopo la confessione, l'uomo viene ritrovato ucciso, con un proiettile in petto e morsi di cane in tutto il corpo. Cage sente il peso del senso di colpa, per non aver saputo proteggere l'amico, e il peso del fallimento, per non aver saputo difendere la sua città dall'insinuarsi del male. Ma la ricerca dei colpevoli si rivela ben presto una caccia solitaria: tra le autorità locali, infatti, nessuno è disposto ad aiutarlo...
La Notte Non è un Posto Sicuro, uno psicopatico assoldato dal potere per poter incastrare un pezzo grosso della mafia cinese.Twitta

Riassunto. 


Mezzanotte nel giardino dei morti. 

Una luna d'argento, sospesa sopra lo specchio nero del­le acque del fiume, riversa la sua gelida luce sull'autostrada che dalla Louisiana si snoda fino al Texas. 


Sono fermo qui, tra le pietre tombali, scosso da un bri­vido. Sono l'unica presenza umana nel raggio di chilome­tri. Ai miei piedi una semplice lastra di granito, sotto la quale giace il corpo di mia moglie.
Sulla lapide sono incise queste parole: 


SARAH ELIZABETH CAGE
1963-1998 

Amata figlia, moglie, madre, insegnante.


Non mi sono intrufolato nel cimitero a notte fonda per venire a visitare la tomba di mia moglie. Sono qui perché me l'ha chiesto un amico. E se ho accettato non è stato per amicizia, ma per senso di colpa. E per paura. 


L'uomo che sto aspettando ha quarantacinque anni, ma per me è come se ne avesse ancora nove. È a quell'età che ci siamo conosciuti, all'epoca del primo sbarco sulla Luna. Le amicizie nate nell'infanzia creano vincoli che durano nel tempo. Il mio senso di colpa è lo stesso che si prova nel vedere qualcuno che si sta perdendo senza poter fare niente per salvarlo. Nel corso degli anni, Tim Jessup ha continuato a cacciarsi nei guai e io, dopo qualche tentativo iniziale, ho smesso di aiutarlo.
Quanto alla paura, non ha niente a che vedere con Tim. Lui è solo un messaggero: verrà a portarmi notizie che preferirei non ricevere. Notizie che potrebbero conferma­re i pettegolezzi sussurrati sui campi da golf, mormorati nei capanni di caccia, bisbigliati a bordo campo durante le partite di football, come un vento che sale prima della tempesta.


Quando Tim mi ha chiesto di incontrarlo, ho esitato. Questo è il momento peggiore per fare i conti con la co­scienza, sia per me sia per la città. Ma alla fine ho accet­tato di ascoltare quel che avrà da dirmi. Perché se quelle voci sono vere, se è vero che il male è entrato a Natchez, sono stato proprio io ad aprirgli la porta. Mi sono candi­dato alla carica di sindaco credendo fino in fondo nella mia missione. Certo della mia onestà, sono stato così pre­suntuoso da pensare di poter venire a patti con il diavolo senza sporcare la coscienza di questa città. Ma era solo una pia illusione.


Da mesi, ormai, il senso di fallimento cresce dentro di me, mi opprime con un peso insostenibile. Raramente, nel­la mia vita, ho fallito, e non mi sono mai dato per vinto. A tutti gli americani viene insegnato che non bisogna arren­dersi, ma qui nel Sud questo precetto è quasi una religione. Due anni fa mi trovavo in questo stesso luogo, davanti alla tomba di mia moglie, con il cuore colmo di speranza e la certezza che grazie alla mia buona volontà avrei risollevato le sorti della ridente cittadina dove sono nato, richiuden­do le ferite aperte lasciate dalla questione razziale. Ora, dopo due anni, a metà del mio mandato di sindaco, ho capito che alla gente non piace il cambiamento, nemmeno se è per il suo bene. Parliamo tanto di ideali, ma la nostra vita è regolata solo dall'opportunismo e dal pregiudizio. Prendere atto di questa ipocrisia è stata un'esperienza che mi ha messo a dura prova.

Le persone che mi vogliono bene hanno capito subito come sarebbe andata a finire. Mio padre e la mia compa­gna di allora hanno cercato di salvarmi dalle mie illusioni, ma non li ho ascoltati. E la cosa peggiore è che a pagare il prezzo più alto è stata mia figlia. Due anni fa mi sembrava di sentire la voce di mia moglie, che mi incoraggiava ad andare avanti. Ora sento solo il soffio indistinto del vento: mi ripete sottovoce la lezione che tanti hanno imparato prima di me: "Non si può tornare indietro". 


Il mio orologio segna mezzanotte e mezza. Tim è in ritardo di mezz'ora e non c'è traccia di lui nella foresta di lapidi che si stende fra me e Cemetery Road. Saluto in silenzio mia moglie, poi mi avvio verso il punto stabilito per l'incontro: la Collina degli Ebrei, la piccola altura che ospita il settore ebraico del cimitero. I miei passi non fan­no rumore, l'erba è umida, folta e ben curata. Molti dei nomi incisi sulle lapidi appartengono a persone che ho conosciuto. Sono legati alla mia storia, ma anche a quella della città. Friedler, Jacobs e Dreyfus sulla Collina degli Ebrei; Knoxe, Henry e Thornhill nel settore protestante, e infine Donnelly, Binelli e O'Banyon in quello cattolico. La maggior parte dei morti sepolti qui aveva la pelle chiara. Tuttavia nei lotti che sulla mappa del cimitero sono con­trassegnati dall'indicazione neri riposano i pochi domesti­ci e gli schiavi più fedeli che, vivendo ai margini del mondo dei bianchi, si guadagnavano il diritto a una zolla di terra consacrata. Perlopiù venivano interrati senza lapide o altri segni di riconoscimento. Bisogna scendere dalla collina e andare al cimitero nazionale per trovare le tombe dei neri liberi: in maggioranza soldati, i cui resti riposano fra quelli dei centoventotto caduti senza nome della Guerra Civile. 


Eppure la storia di questo luogo è ancora più antica. Ci gono tombe di persone nate a metà del Settecento: se i lo­ro occupanti resuscitassero, scoprirebbero che alcune zo­ne della città non sono cambiate di molto rispetto ai loro tempi. Bambini morti di febbre gialla riposano accanto a nobili spagnoli e a generali dimenticati, tutti ormai decomposti sotto statue di «anti e angeli piangenti. Natchez è la più antica città sul fiume Mississippi, più antica anche di New Orleans: per capirlo basta guardare le lapidi annerite e mezze affondate nel terreno che si perdono fin dentro la foresta.

Quando Tim Jessup.rm ha chiamato per chiedermi di vederci, ho pensato che volesse incontrarmi qui per sem­plice comodità. Tim lavora al Magnolia Queen, uno dei ca­sinò galleggianti ormeggiati lungo la riva del fiume. Il Ma­gnolia si trova grosso modo sotto la Collina degli Ebrei e il turno di Tim finisce proprio a mezzanotte. Lui però mi ha spiegato di aver scelto il cimitero perché è un posto isolato e non corriamo il rischio di essere visti da qualcuno. Mi ha anche messo in guardia, dicendo che non devo fidarmi di nessuno, neppure del dipartimento di polizia o dei funzio-nari del municipio. 

Poi mi ha fatto giurare che non l'avrei chiamato né al cellulare né al telefono di casa, per nessuna ragione al mondo. Sul momento le sue raccomandazioni mi sono sembrate eccessive e un po' ridicole, ma poi ho dovuto dargli ragione: la corruzione può penetrare ovun-que, io stesso ho avuto modo di sperimentarlo più di una volta. 

Nella mia vita precedente ero un uomo di legge, lavora­vo come pubblico ministero per l'ufficio del procuratore distrettuale di Houston. Iniziai la mia carriera come un avvocato idealista alla Atticus Finch e la conclusi dopo aver mandato sedici persone nel braccio della morte. Ri­pensandoci, non saprei dire di preciso che cosa accadde. Sta di fatto che una mattina mi svegliai e mi resi conto che punire i colpevoli non era lo scopo della mia vita. Così diedi le dimissioni e tornai a casa, da mia moglie e mia figlia. Non sapendo come impiegare il tempo che a quel punto avevo a disposizione (e avendo bisogno di denaro), cominciai a scrivere romanzi ispirati alle mie esperienze di magistrato, seguendo, come tanti altri ex avvocati, la stra­da tracciata da John Grisham. I miei libri ebbero un certo successo e il mio nome finì nella classifica dei bestseller. A



quel punto comprammo una casa più grande e iscrivemmo Annie a una scuola più prestigiosa. Cominciai a provare un'emozione nuova: un senso di onnipotenza, la certezza che qualsiasi cosa avessi intrapreso, avrei avuto successo. Ero così giovane e arrogante da pensare di essermi me­ritato tutto ciò che avevo, e così stupido da credere che sarebbe durato per sempre.


Poi mia moglie morì.


La seppellimmo quattro mesi dopo che mio padre le aveva diagnosticato un tumore. Lo shock della sua perdita rischiò di annientare la mia vita e quella della mia bambina di quattro anni. Sconvolto dal dolore, tornai a Houston per riprendere Annie e portarla nella cittadina del Missis­sippi dove sono cresciuto, affidandola all'affetto dei miei genitori. E proprio qui a Natchez, mentre stavo ancora ar­rancando per ridare un senso alla mia vita, mi sono trovato coinvolto in un caso di omicidio: una vicenda risalente a trent'anni prima. Quell'esperienza mi ha salvato la vita, ma ha troncato quella di quattro persone. Da allora sono pas­sati sette anni. Annie oggi ha undici anni ed è bellissima, il ritratto di sua madre. In questo momento è a casa che dorme. L'ho lasciata con la babysitter, che sta aspettando il mio rientro. Decido di concedere a Tim solo altri cinque minuti. Che cavolo. Se non riesce ad arrivare in tempo, può sempre venire a cercarmi nel mio ufficio in municipio, come fanno tutti.


Il cuore mi martella nel petto: la salita che porta in cima alla Collina degli Ebrei è ripidissima. A ogni respiro, mi arriva il profumo inebriante dei cespugli di osmanto, an­cora in fiore a metà ottobre. Sotto l'effluvio dei fiori ribolle una miscela di odori più pesanti: foglie umide, terriccio e qualcosa di morto tra gli alberi, forse un cervo colpito da un bracconiere di passaggio.
Non appena raggiungo la cima della collina, il paesaggio e il ciclo si spalancano di colpo davanti a me, lasciandomi senza fiato.


Il fiume scorre sessanta metri più in basso. Da questa altezza si vede l'immeasa pianura stendersi a perdita d'occhio verso ovest con una maestosità che stordisce. La sensazio­ne che si prova è la stessa che in passato ha spinto tante nazioni a contendersi queste terre. Francia, Spagna, Inghil­terra, gli Stati Confederati durante la guerra di secessione: tutti hanno tentato di impadronirsene, senza mai riuscirci, come già era accaduto agli indiani Natchez prima di loro.


Mentre mi siedo su una panchina, vedo due fari risalire Cemetery Road come una barca che naviga controvento, sobbalzando sulla stretta carreggiata che si snoda lungo il margine della scarpata a picco sul fiume. Mi alzo in piedi, ma il mezzo non rallenta e dopo qualche istante riesco a distinguere un pick-up che supera sferragliando la baracca sull'altro alto della strada. Poi sparisce dopo la prima cur­va, in dirczione della Tana del Diavolo, una profonda gola ai margini della contea, dove i fuorilegge che un tempo infestavano la zona gettavano i cadaveri delle loro vittime.


«Mi dispiace Tim» dico a voce alta. «Tempo scaduto.»


Il vento che soffia dal fiume si fa più intenso e mi pene­tra sotto la giacca. Ho freddo, sono stanco e ho voglia di andare a letto. Mi aspettano tre giorni frenetici, i più im­pegnativi dell'anno per il sindaco di Natchez. Domattina ho in programma una conferenza stampa, poi un volo in elicottero sulla città. Ma una volta superati questi tre gior­ni, ci saranno grandi cambiamenti nella mia vita.

Mi allontano dalla panchina e mi incammino verso il fronte meno scosceso della collina, diretto alla mia vecchia Saab parcheggiata oltre il muro del cimitero. Mentre mi piego in avanti per affrontare la discesa, una voce appren­siva rompe il silenzio: «Ehi, amico. Ci sei?».

 Un'ombra, sbucata dalla parte più interna del cimitero, avanza verso di me. Da qui riesco a vedere tutte e quattro le entrate, ma non ho notato fari né sentito il motore di un'auto. Eccolo qui, Tim Jessup. Si materializza come uno dei fantasmi che si dice infestino questa antica collina. Lo riconosco subito, perché Tim è stato un tossico e si muove ancora come chi è in cerca di una dose: quell'incedere rigido e scoordinato sulle gambe sottili, quel continuo guar­darsi intorno per assicurarsi che non salti fuori qualche poliziotto.

Lui giura che ha smesso di farsi da un pezzo, grazie so­prattutto a Julia, la sua nuova moglie, che ha tre anni meno di noi e frequentava la nostra stessa scuola. A diciannove anni Julia aveva sposato il quarterback della squadra scola­stica di football e le ci vollero cinque anni di inferno prima di decidersi a divorziare. Quando ho saputo che stava per sposare Tim Jessup, ho pensato che volesse aggiungere un altro fallimento al suo curriculum. Ma in città si dice che Julia abbia fatto miracoli con Tim. Gli ha trovato un posto come croupier ai tavoli di blackjack in uno dei casinò gal­leggianti ed è riuscita a non farglielo mollare. Ormai è più di un anno che Tim riga dritto e di recente è stato assunto al Magnolia Queen.


«Penn!» mi chiama. «Sono io. Dove ti sei cacciato? Esci fuori!»


La luce della luna mette in risalto la magrezza del suo volto. Anche se abbiamo la stessa età - siamo nati a solo un mese di distanza - Tim sembra molto più vecchio di me. Ha la pelle della consistenza del cuoio, come succede a chi è stato troppo a lungo sotto il sole del Mississippi. La nico-I lina rende giallastri i suoi baffi grigi; la pelle e gli occhi hanno la sfumatura itterica di un uomo il cui fegato è arri­vato al capolinea.


Una delle cose che più ci ha unito da ragazzi era il fatto di essere entrambi figli di un medico. Eravamo fin troppo Consapevoli della responsabilità che gravava sui nostri pa­dri, molto simile a quella dei sacerdoti. Essere figli di un ||nedico può portare benefici ma anche svantaggi. Tutti si ; Espellano che i primogeniti seguano le impronte paterne, llcegliendo la stessa professione. In realtà io e Tim abbia­mo entrambi deluso quelle aspettative, sia pure per strade molto diverse.


Con un sospiro di rassegnazione mi faccio vedere da lui. «Tim? Ehi, sono io.»


Si volta di scatto e infila rapidamente la mano in tasca come per prendere qualcosa. Per un attimo ho il terrore che stia per tirare fuori una pistola, ma poi mi riconosce e si rilassa.


«Amico» dice con un sorrisetto. «Pensavo che mi avessi tirato un bidone.»


«Sei tu quello che è arrivato in ritardo.»


Annuisce più volte. È uno che non riesce mai a star fermo. Mi chiedo come faccia a rimanere tutta la notte al tavolo del blackjack.


«Non potevo andarmene troppo in fretta» spiega. «Cre­do che mi stiano tenendo d'occhio. Anche se in effetti tutti i dipendenti del Magnolia sono costantemente sorvegliati. Ma forse hanno qualche sospetto specifico su di me.»


«Non ho visto la tua macchina. Come hai fatto ad arri­vare?»


Un sorriso scaltro illumina per un attimo il suo volto scavato. «Ho i miei metodi, amico. Bisogna stare attenti con gente come quella. Sono come predatori, te lo dico io. Appena sentono una minaccia, scattano e... bam\» Batte le mani. «Uccidono per puro istinto, come gli squali.» Si volta verso la città che si stende sotto di noi. «A proposito, è meglio se troviamo un posto meno in vista.» Mi conduce verso il muretto che delimita un piccolo lotto di tombe della stessa famiglia. «Come ai tempi della scuola. Ti ricor­di quando venivamo qui a farci le canne? Ci mettevamo a sedere proprio qui dietro perché gli sbirri non vedessero la brace dello spinello.»


In realtà, ai tempi della scuola non ho mai fumato erba con Tim, ma preferisco non contraddirlo. Spero che mi riferisca in fretta quello che ha da dirmi, in modo da poter tornare a casa.
Tim salta dall'altra parte con sorprendente agilità. Men­tre lo seguo, scavalcando il muretto, mi torna in mente l'unico ricordo di questo cimitero che associo a Tim. Era la notte di Halloween. Insieme ad altri ragazzini lanciammo le nostre biciclette da cross oltre il muro del cimitero e cominciammo a scorrazzare tra i vialetti e le tombe, ridendo e divertendoci come matti, finché non fummo assaliti da un branco di cani randagi. Ci inseguirono fino alle grandi querce che sorgono vicino a uno dei cancelli d'ingresso. Chissà se Tim se lo ricorda.


Lanciando un'ultima, ansiosa occhiata in dirczione di Cemetery Road, Tim si siede sul terreno bagnato, appog­giando la schiena ai mattoni coperti di muschio. Mi siedo accanto a lui, la punta delle mie scarpe da jogging che sfio­ra quella delle sue malconce scarpe da barca. Deve aver avuto il tempo di cambiarsi: non indossa la divisa da crou­pier, ma un paio di jeans neri e una maglietta grigia.


«Non si può uscire dal Magnolia con la divisa da lavoro» dice, come se mi avesse letto nel pensiero. Di sicuro si è accorto che lo sto guardando con sospetto, studiandolo.


Decido di saltare i convenevoli e vado subito al sodo. «Le cose che mi hai riferito al telefono sono inquietanti, altrimenti non sarei venuto qui a quest'ora.»


Tim annuisce, mentre estrae dalla tasca una sigaretta mezza piegata. «Meglio non accenderla, per prudenza» dice mettendosela in bocca. «La fumerò più tardi, mentre torno a casa.» Accenna ancora un sorrisetto, poi si fa serio. «Allo­ra, cosa sapevi di questa storia prima che ti chiamassi?»
«Ho sentito solo qualche voce. Personaggi importanti che vengono a Natchez per giocare d'azzardo, trattenen­dosi in città il minimo indispensabile, una botta e via. Sportivi professionisti, rapper milionari, gente del genere. Gente che normalmente non verrebbe da queste parti.» 


«Mai sentito parlare dei combattimenti di cani?» 


Speravo che almeno quella fosse solo una diceria. «Sì, ma ho qualche difficoltà a crederci. È una cosa da gente di campagna. So che a volte organizzano questi combat­timenti nelle comunità rurali di là dal fiume. Ma non è il genere di spettacolo che attira vip e ricconi.» 

Tim si morde il labbro inferiore. «Che altro sai?» 


Stavolta non rispondo. Ho sentito dire altre cose - per esempio che nell'ambiente del gioco d'azzardo prospera-no anche la prostituzione e lo spaccio di droghe pesanti -ma sono problemi che nella nostra comunità ci sono sem­pre stati. «Non mi va di trarre conclusioni sulla base di voci che potrebbero rivelarsi false.» 


«Ehi, amico, te ne sei accorto? Parli proprio come un politico del cazzo.» 


È esattamente quello che sono, anche se in questo mo­mento mi sento più come un avvocato che cerca di capire quanto ci sia di vero nella storia che gli sta raccontando un cliente poco affidabile. «Tu raccontami quello che sai, e poi vediamo se coincide con quello che so io.» 


Tim è sempre più agitato e alla fine cede al bisogno di nicotina. Tira fuori un accendino, accosta la punta della sigaretta alla fiamma e la accende. «Lo sai che sono diven­tato papa? Ho un bel maschietto» dice soffiando fuori il fumo. 


«Sì, l'ho visto con Julia. Ci siamo incontrati al supermercato, due settimane fa. È proprio un bel bambino.» 


Un sorriso gli illumina il volto. «Assomiglia a sua madre. Julia è ancora una bella ragazza, l'hai vista anche tu.» 


«Sì, certo.» Concordo, ma sono impaziente. «Allora Tim, cosa vogliamo fare? Perché hai voluto incontrarmi?» 


Lui non risponde. Tira un'altra boccata, tenendo la si­garetta tra pollice e indice, nascosta nel palmo della mano pome se fosse uno spinello.



Vedo che trema, e non è per il freddo. Tutto il suo corpo ha cominciato a fremere e mi viene il sospetto che abbia ricominciato a drogarsi. 


«Tim?» 


«Non è come credi, amico. Il fatto è che questa storia mi tormenta da un pezzo. A volte, a forza di pensarci, mi vengono i brividi.» 


Mi accorgo che sta piangendo e resto spiazzato. Mentre si asciuga gli occhi, gli metto una mano sul ginocchio per rassicurarlo. «Va tutto bene?» gli chiedo. 


Lui spegne la sigaretta su una pietra tombale e si sporge in avanti. Nel suo sguardo arde una luce che credevo spen­ta per sempre. «Io posso raccontarti tutto, ma ricordati  che poi non si torna indietro. E roba che non ti farà dor­mire la notte. Ti conosco: sei come un pit bull e non potrai più mollare la presa.» 


«Ed è per questo che mi hai chiesto di venire qui stase­ra, giusto?» 


Lui si stringe nelle spalle, mentre la testa e le mani rico­minciano a tremare. «Te lo dico per l'ultima volta, Penn. Se la cosa non ti interessa, vattene subito. Scavalca quel muretto e torna alla tua macchina. È quello che farebbe qualsiasi persona con un po' di cervello.» 


Appoggio la schiena contro i mattoni freddi, cercando di riflettere. È il dilemma più antico del mondo: "Meglio una beata ignoranza o una scomoda consapevolezza?". Mi ; sembra di vedere Tim dietro il suo tavolo da blackjack: ; «Carta o sta, signore?». In realtà non ho scelta, perché j anch'io ho contribuito a portare a Natchez il Magnolia. 


«Coraggio, Tim, dimmi tutto. Non possiamo stare qui tutta la notte.» 


Mi fissa a lungo, poi si volta su un fianco ed estrae qual-|cosa dalla tasca posteriore dei jeans. A prima vista sembrano carte da gioco. Me le porge tenendole sotto il palmo rovesciato della mano, come volesse nasconderle. 


«Devo scegliere una carta?» gli chiedo.  «Non sono carte. Sono fotografie. Un po' sfocate, per­le sono state fatte con un cellulare.» Allungo la mano e le prendo. Ho visto migliaia di foto scattate su scene del crimine, immagini dettagliate e riavvi­ate, e penso di essere preparato. Ma non appena Tim scattare l'accendino e con la fiamma illumina la prima foto, sento lo stomaco rivoltarsi.


 «Lo so» dice Tim con voce stanca. «E ancora non hai sai il resto.»

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1 commento:

  1. La storia avvince per buona metà e poi comincia a scricchiolare. alcuni personaggi perdono personalità per diventare in qualche modo più comuni, si perde molto in termini di thriller e diventa troppo televisivo.

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